Quando inizi a raccontare le nostre storie?
Vicino le scuole medie, su, dove una volta c’erano le prime case popolari, c’è una strada che si interrompe proprio dietro la collina e che non porta da nessuna parte. A volerla percorrere, oggi, il navigatore ti consiglierebbe di tornare indietro.
Indietro fino a un lontano inverno dei primi anni ’50 quando era piena di donne e uomini che decisero di chiedere lavoro… lavorando.
ALLA ROVESCIA: STORIA DI UNO SCIOPERO AL CONTRARIO
Chi lavora sciopera, chi non può scioperare lavora.
Non sono un infermiere, né un medico. Non appartengo a quelle categorie di lavoratori “utili e necessari” durante le emergenze come chi guida le ambulanze o lavora nei supermercati. Mi occupo di comunicazione. Sono una specie di operaio specializzato della comunicazione, prevalentemente aziendale. Ogni tanto scrivo anche delle storie. Qualcuna ha oltrepassato la staccionata dell’indifferenza ed è arrivata a un numero di persone più ampio di quelle che di solito legge/guarda/ascolta le cose che dico.
Questo è. Tutto qui. Tutto qui?
In una situazione di emergenza del genere, con una malattia respiratoria che se ne va in giro per il mondo senza vaccino e una serie di decreti confusi che sembrano riversare solo sulle azioni dei singoli il peso della diffusione del virus, può essere utile uno come me? E se sì, in che modo? Ci penso da giorni. E ci sono momenti che proprio no. A che vuoi che serva uno come me? Ci sono invece altri momenti in cui mi dico che è sempre utile sedersi intorno a un fuoco (si fa per dire…) e raccontarsi delle storie.
Per non sentirsi soli, innanzi tutto.
Ma anche per farsi forza e ricordarsi come chi è venuto prima di noi ha reagito a momenti altrettanto difficili. Infine, per provare a capire un po’ meglio la vita di oggi e immaginare quella di domani. Perché – cari Doc e Marty – “dove stiamo andando noi – invece – c’è bisogno di strade”. Eccome.
Quando inizi a raccontare le nostre storie?
Me lo chiese tempo fa un vecchio amico incontrato per caso. Questo amico, molto più grande di me, era il fratello maggiore di uno dei ragazzini con cui passavo il tempo nella strada sotto casa ed era stato parte determinante quanto involontaria di quell’educazione che una volta si acquisiva direttamente in strada. Senza retorica e senza sovrastrutture.
Un’educazione diretta e comprensibile come un pugno nello stomaco. Latinoamericana con il Che senza barba, sdraiato serio in balcone lo conoscevo perché era lui ad avermelo raccontato quando alle medie studiavo ancora la preistoria, per dire.
Non lo vedevo da anni questo amico, e la prima cosa che mi chiese fu proprio questa. E io lo sapevo che si riferiva alla storia dello Sciopero a rovescio.
La strada senza nome
… con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria.
Fabrizio De André, Massimo Bubola, Coda di lupo, Rimini, 1978.
Ho passato anni girando intorno alla storia dello Sciopero a rovescio. Da quando l’ho sentita la prima volta che ero ragazzino a oggi, ho raccolto nastri, fotografie, letto libri, consultato documenti, bussato a molte porte. Ho anche fatto qualche intervista, scritto un progetto per un documentario e un soggetto per un lungometraggio.
Le interviste le ho fatte d’impulso circa un anno fa, dopo aver avuto la fortuna di ritrovare, grazie all’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio, le immagini perdute che due giovani registi girarono a Sonnino proprio nei giorni dello sciopero a rovescio. I vecchi raccontavano che i carabinieri volevano sequestrare la pellicola ma che le donne di Sonnino la nascosero e la restituirono ai registi quando ormai non c’era più pericolo. Girl power.
I due registi erano Gillo Pontecorvo e Giuseppe De Santis e quanto gli Scioperi a rovescio abbiano influenzato il loro immaginario è visibile nella loro filmografia. Basta dare un’occhiata a Giovanna, il primo mediometraggio di Pontecorvo e, chiaramente, a La strada lunga un anno, che De Santis girò in Jugoslavia anni dopo e che si ispirava agli scioperi avvenuti a Sonnino e nei paesi dei monti Lepini. Di questo ritrovamento se n’è già parlato qui e non voglio annoiarvi.
L’idea era quella di utilizzare queste interviste come punto di partenza per un progetto più strutturato. Più professionale, diciamo così. Poi però – si sa come vanno queste cose – in attesa che un regista riuscisse a far partire il progetto, che con un documentarista si riuscissero a trovare i fondi per finanziare una produzione anche ridotta, che un Ente manifestasse un timido interesse, che il momento storico-politico fosse quello “giusto” (qualunque cosa voglia dire…) – ebbene sì – le ho lasciate lì da parte, in attesa. Ferme, ma mai dimenticate.
La strada interrotta come metafora
Non so, in tutta onestà, se avrò la forza di farle diventare un vero documentario o un film. Ma questo non ha alcuna rilevanza. Perché qui-e-ora sento l’urgenza morale di metterle a disposizione così come sono.
Come fossero quaderni aperti che altri Sonninesi, se vorranno, potranno utilizzare per raccontare la loro parte di storia.
Ho avuto la fortuna di crescere in un piccolo paese abitato da persone a cui devo molto. E non solo in termini di affetti, ma anche di lotta, di emancipazione innanzi tutto culturale, di visione del mondo. Persone che mi hanno insegnato a rispettare e valorizzare le radici, certo, ma anche a capire come e dove reciderle per non restarne imprigionato.
Sono consapevole, pertanto, che la mia unica funzione qui non è “autoriale” (per carità…), ma solo di testimonianza, peraltro parziale e soggettiva.
La consapevolezza di essere solo una delle tante voci di passaggio con un’unica presunzione. Quella di voler raccontare a chi vorrà ascoltarla, una storia che altri hanno raccontato a me con tanta pazienza e con i silenzi al punto giusto.
Ogni volta che parlavo con qualcuno della storia dello Sciopero a rovescio imparavo quanto l’unico “personaggio” che narrativamente potesse evolvere ero solamente io che facevo le domande. Quanti schemi avuti in mente per anni leggendo Propp, o Campbell, e fantasticando sulla “Storia della strada come metafora di bla bla bla…” che puff, si dissolvevano mentre ascoltavo la stessa storia da un ennesimo, nuovo, insolito, punto di vista.
Quando te cride de sta’ a cavajo no stai manco a pede
Ovvero: “Quando credi di stare a cavallo, ti rendi conto che non sei nemmeno a piedi”. Uno dei detti preferiti di mia nonna dopo “spegni la luce in corridoio”. E uno dei moniti che mi ripeto continuamente quando scrivo.
Non La Storia dunque, ma le storie dello Sciopero a rovescio e della strada interrotta. Zero sovrastrutture, solo la vita. Con tutte le contraddizioni, gli aneddoti e i ricordi che l’età contribuisce a confondere.
Avrei voluto continuare a mettere da parte altre interviste, perché di Sonninesi che hanno da raccontare cose interessanti sulla vicenda ce ne sono ancora molti. E chissà che un giorno non ci riesca.
Una delle puntate che avrei voluto girare, ad esempio, è quella in cui questa strada interrotta, finalmente ha un nome.
L’essenza linguistica dell’uomo è di nominare le cose.
Walter Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo in Angelus Novus, Einaudi 2004, pag. 56.
Un po’ per deformazione professionale, un po’ per l’ossessione che questa storia continui a sfuggire all’immaginario del mio paese, ho sempre pensato che il primo passo per condividerne l’epica e la dimensione simbolica dovesse essere quello di darle un nome. Un nome chiaro e riconoscibile.
Anche perché, senza questo atto di dare-il-nome-alle-cose, avverte Benjamin, l’essenza spirituale delle cose rimane intrappolata.
Dare un nome alla strada è dunque la prima pietra da poggiare a terra per farla (r)esistere nel tempo come strada costruita “alla rovescia”.
E quindi…
Via dello Sciopero a Rovescio
Così immagino di passeggiare sulla strada interrotta con Giacomo, Emilio e i giovani amici che hanno fatto del ritrovamento delle immagini di De Santis e Pontecorvo un punto di partenza per nuove riflessioni all’interno del Circolo politico che frequentano in paese.
Immagino che mi dicano che “Via dello Sciopero a rovescio” è proprio un bel nome e che si dovrebbe proporlo al prossimo Consiglio Comunale perché, in fondo, a ben vedere, non è mica vero che questa strada non ha portato da nessuna parte.
Mi vedo augurargli di avere tutta la forza e l’impegno necessari per non interrompere mai le loro, di strade, ma poi non lo faccio ché non voglio sembrargli più vecchio e insopportabile di quello che sono.
Il rovescio dello Sciopero è sempre lotta per il lavoro
Nel 1951 pochi mesi prima degli Scioperi a rovescio c’era stata un’inchiesta sulla miseria e migliaia di contadini dei monti Lepini e dell’Agro pontino furono intervistati. La situazione di degrado e di povertà che ne era emersa era intollerabile.
Chi si occupò di organizzare questi uomini e donne dimenticati furono le sezioni provinciali e locali del PCI con il sostegno di quelle della CGIL allora guidata da Giuseppe Di Vittorio, che chiamò letteralmente i disoccupati all’azione. E che azione: lavorare senza salario per realizzare un’opera utile a tutti. Perché che sciopero vuoi fare se il lavoro non ce l’hai?
L’eco degli scioperi a rovescio dei monti Lepini tra il 1951 e il ’52 si estese poi in tutta Italia con esiti creativi e ricchi di ingegno. Vittorio Foa nell’introduzione al libro di Giuseppe Cantarano Alla Riversa (Dedalo, 1989), che ne ricostruisce bene storia e contesto, racconta che si costruirono strade, dighe, ma non solo. A Reggio Emilia i meccanici realizzarono un trattore, a Torino un’automobile. A Sestri Ponente i cantieristi vararono addirittura una nave.
Cosa speravano di ottenere questi disoccupati? Semplice: di vivere e lavorare in un mondo migliore. Più equo, più giusto, più solidale.
Ecco perché, guardandola scomparire dietro la collina, ho sempre pensato insieme a tutti quelli che conoscono la storia di questi scioperi, che questa strada non avrebbe dovuto portare solo al paese vicino, ma a un mondo migliore.
Il governo di allora, però, rispose inviando le Forze dell’ordine. E così la strada non fu mai terminata e se ne perse la memoria.
Le donne e gli uomini dei Monti Lepini, del Cassinate, della Marsica, del Foggiano, di tutto il Meridione lottarono con tenacia e […] subirono tutta l’intolleranza e la violenza del potere.
[Quell’oggetto della fantasia per cui lottarono] non era altro che la fede, la speranza nella possibilità che anche per gli umili, per i poveri, per i diseredati e gli oppressi, vi potesse essere, un giorno, la liberazione dalla costrizione dei bisogni, l’emancipazione dalla miseria e dalla subalternità materiale e spirituale in cui le classi dominanti, “i vincitori di ogni volta e i padroni del momento”, li hanno sempre tenuti.
G. Cantarano, Alla riversa, Edizioni Dedalo, 1989, pag. 207. Il riferimento ai “vincitori di ogni volta” e ai “padroni del momento” viene da W. Benjamin, Tesi di Filosofia della Storia in Angelus Novus, Einaudi 2004, pag. 56.
Alla rovescia ma insieme
Il messaggio che quella lotta non smette ancora oggi di inviare al presente è un messaggio di solidarietà semplice e chiaro: il diritto/dovere di lavorare non deve essere solo al servizio di sé o della propria famiglia, ma della collettività. Proprio come scritto nell’articolo 4 della Costituzione, che a rileggerlo emoziona ogni volta.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Articolo 4, Costituzione della Repubblica Italiana, Senato.it.
L‘articolo 4 ci porta ancora più a sud, in Sicilia, da Danilo Dolci. Alle lotte che intraprese qualche anno dopo, partendo da premesse analoghe e giungendo a conclusioni altrettanto creative raccontate nel libro Processo all’articolo 4 (D. Dolci, Sellerio 2011). Ma questa è un’altra storia… o forse no, è sempre la stessa iniziata anni prima da Antonio Gramsci mentre rifletteva sul ruolo delle classi subalterne (specialmente quella dei contadini meridionali). Perché subalterne? Perché subordinate, disgregate e senza voce in conseguenza dell’egemonia culturale delle classi dominanti di turno.
Sempre la stessa storia che vediamo ripetersi anche oggi durante l’emergenza da Covid-19 quando, attraverso la voce del sindacalista Aboubakar Soumahoro ascoltiamo le rivendicazioni dei braccianti agricoli del sud Italia che vivono in baraccopoli: “I diritti dell’uomo sono violati quando le persone sono costrette a vivere nella miseria”.
Guardando la strada interrotta di Sonnino si vede subito lo sciopero per il lavoro, insomma, ma si indica la lotta per la costruzione di una vita migliore. Il dito, la luna.
Chi è lo sciocco che vuol farci credere che la politica non abbia bisogno oggi (ancor di più) di fantasia?
Pietro Ingrao in G. Cantarano, Alla riversa, Edizioni Dedalo, 1989. pag. 206,
Lo Sciopero a rovescio è stato rivoluzionario?
Certamente no se si guardano gli esiti reali e immediati. Quando gli scioperi andavano bene – cioè quando le forze dell’ordine non li interrompevano con la forza (appunto) e con gli arresti – gli scioperanti venivano in parte reimpiegati a tempo determinato per concludere i lavori iniziati o in altri lavori provvisori di pubblica utilità. A Sonnino, ad esempio, alcuni finirono, per qualche tempo, nei rimboschimenti.
Senz’altro, però, questi scioperi ebbero una risonanza nell’immaginario e contribuirono a preparare il terreno per le future lotte e rivendicazioni sindacali degli anni successivi. L’ideazione e la messa in opera creativa poi, quasi dadaista permise, di fatto, di ascoltare la voce di una classe contadina subalterna che di voce non ne aveva.
Quella voce si poteva ascoltare con i piedi, camminando sulla strada costruita spaccando i sassi a mani nude, con strumenti rudimentali e autogestendo il lavoro con professionalità e sacrificio.
La strada da costruire era sia il mezzo che il messaggio.
E il messaggio era rivolto ai contemporanei e ai posteri. E sarebbe bastato percorrerlo per ascoltarlo con chiarezza. In un verso o nell’altro.
rovèscio (ant. rivèscio o rivèrscio) agg. e s. m. [lat. reversus] (pl. f. -sce). –agg. Voltato dalla parte opposta a quella diritta, e, più genericam., voltato in modo contrario a quello abituale, normale. (fonte: Treccani.it)
rivoluzióne s. f. [dal lat. tardo revolutio -onis «rivolgimento, ritorno», der. di revolvĕre: v. rivolgere]. (fonte: Treccani.it)
La rivoluzionarietà, scrive Vittorio Foa, è stata quella di riuscire a educare il manifestante a realizzare prima in se stesso l’ideale per il quale lottava.
Per chiedere il lavoro tu lavori! Non è un insegnamento da poco. Dobbiamo per prima cosa realizzare dentro noi stessi l’ideale per il quale ci proponiamo di lottare.
Vittorio Foa in G. Cantarano, Alla riversa, Edizioni Dedalo, 1989, pag. 21.
O, come avrebbe sostenuto un tempo il filosofo, medico nonché scrittore di fantascienza Bogdanov:
Conoscere il mondo e cambiarlo sono la stessa cosa. Cambiare il mondo e cambiare noi stessi sono la stessa cosa.
Wu Ming, Proletkult, Einaudi, 2018, pag. 304.
***
Ringraziamenti
Grazie a Raffa e alle bambine, alla strada fatta e a quella da fare, “ché la retta è per chi ha fretta”.
Tutto è partito dai nastri dello zio A. Bernardini e del suo amico B. Rosati che, nel ’78, poco più che ragazzi, registrarono le voci dei Sonninesi che parteciparono allo Sciopero a rovescio.
La storia giunse così, su audio cassette impolverate, a me e Vincenzo B., due liceali del futuro della metà degli anni ’90 fissati con il cinema che ascoltarono così le voci di Ze ‘Ntonio Celani detto “Mao”, all’epoca dello sciopero segretario della sezione giovanile del PCI, di Pietro Pietricola, Segretario della Camera del Lavoro, di Peppino e ‘Nastasio Del Monte (Segretario del PCI) e andarono a cercali a casa, nei bar, nelle sezioni, per continuare a far loro domande e quando non c’erano più chiedevano ai figli e ai nipoti.
Devo molto a tante altre splendide persone incontrate nella vita a cui ho raccontato questa storia e che mi hanno incoraggiato a portarla avanti, anche a “mani nude”, come sto facendo adesso.
Ne ringrazio qui una incredibile che purtroppo se n’è andata via troppo presto: Max C. Le altre sono nei titoli di coda insieme a tutti i parenti, gli amici e le amiche a cui ho rotto le scatole per fare queste interviste.
Grazie a C. Olivieri (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio) e a C. Paglia (Sonnino.info) per i materiali.
Se avessi dimenticato qualcun* è solo l’età che avanza, e la miopia.
La rivoluzione la fa chi gli serve
Ze ‘Nastasio, Segretario del PCI di Sonnino durante lo Sciopero a rovescio.