Ho finito da una settimana il libro di Luca Sofri, giusto il tempo di un’andata e ritorno Roma-Milano.
Mi è piaciuto? Molto.
Lo consiglierei? Sì.
Perché?
Per numerosi motivi che vanno dalla piacevolezza della lettura all’intensità dei temi trattati, dal respiro internazionale alla semplicità “rivoluzionaria” delle argomentazioni e, a volte, delle soluzioni proposte.
Perché è il libro di un giornalista italiano che ammiro.
Perché è divertente. Il che non è scontato visto che, in fin dei conti, è un saggio politico.
Il libro è ricco di piccole e grandi idee su come rendere migliore il rapporto con noi stessi, con l’Italia, l’universo-e-tutto-quanto.
Perché, si chiede Sofri in uno dei leitmotiv del libro, quando Obama parla agli americani puntando sull’orgoglio nazionale tutti provano empatia mentre da noi, se un politico facesse discorsi del genere, al massimo, proveremmo imbarazzo?
Perché, insomma, non possiamo avere anche noi un paese di cui “essere contenti”?
C’è un passaggio, molto “pop” (il termine è brutto ma rende l’idea) in cui Sofri elenca i motivi per cui vale la pena essere italiani.
Copio/incollo da pag. 38 del libro:
Da noi la dissociazione tra i simboli del patriottismo istituzionale e la cultura popolare contemporanea è assai più vistosa: pensate solo all’elmo di Scipio. «Le porga la chioma.» Mi faccia il favore.
Ma ognuno ha una sua lista di cose «italiane»: io senza pensarci troppo ci metterei per esempio i versi «L’amore che strappa i capelli è perduto ormai» di Fabrizio De André, la stazione di Santa Maria Novella, i fumetti di Gipi, la lettera d’addio di Gabrile Cagliari, Giovanni Soldini quando andò a prendere Isabelle Autissier, Giorgio Ambrosoli, Alex Langer, gli «angeli del fango» dell’alluvione fiorentina, quel «Pazienza» scritto in italino da Rudolf Levy. E anche quella benedetta finale, per l’urlo di Tardelli e per quello di Nando Martellini.
Ovvero, si può costruire e dare forza a un patriottismo proprio, sia personale che collettivo, ma non per questo meno vero e spassionato, da opporre – da sovrapporre, anzi – a quello solenne, datato, retoico, a volte trombone a volte sincero di chi pretende che l’amor patrio passi solo per la bandiera, Carlo Cattaneo, il nostro-bel-Rinascimento-che.tutto-il-mondo-c’invidia ed espressioni come «l’amor patrio»? E si può farne un nuovo promettende germoglio di «identità nazionale»? Si può? Si può sentirsi estranei al centocinquantennale dell’Italia ma non all’Italia?
E allora, ecco la mia personalissima lista con le prime cose che mi vengono in mente “senza-pensarci-troppo” quando penso “sono orgoglioso di essere italiano”:
- Una foto di mio nonno ventenne che sorride felice in mezzo ad altri operai mentre costruiscono un pezzo di ferrovia a Koln, in Germania, all’inizio degli anni 50.
- Il mare di Terracina negli anni ’80 con il jukebox, le canzoni di Giuni Russo e il gelato del pomeriggio dopo l’ultimo bagno.
- Il Si modificato di mio cugino.
- La politica fatta in paese con i cartelloni in piazza e le riunioni al bar.
- La mia prima macchina da scrivere. Olivetti.
- Mio padre che mi accompagna a ritirare la prima carta di identità e la scritta “professione: studente”.
- Il barocco.
- Quella volta che, facevo le medie, a un campeggio internazionale vincemmo gli scout francesi. Ancora godo.
- Le lettere dal carcere di Gramsci.
- Silvana Mangano che balla in Riso Amaro.
- La supercazzola prematurata con lo scappellamento a destra.
- Quando Clint Eastwood dice che deve tutto a Sergio Leone.
- Totò.
- Frank Zappa che canta “Tengo ‘na minchia tanta”
- Quando in una piazza, a Vienna, ho ascoltato le Nozze di Figaro di Mozart circondato da austriaci e tedeschi che canticchiavano le parole dell’opera. In italiano.
Non c’è niente da fare. Gli elenchi di questo tipo con me funzionano sempre. Grande post!
thanks 🙂