C’è Clint Eastwood degli Spietati, innanzitutto.
C’è Andy Wharol e la pop-art. Ci sono le zuppe di fagioli. Le band musicali come i fagioli in scatola. Le nuove canzoni come i vecchi prodotti massificati e tutti uguali. La reiterazione. La serializzazione compositiva. I sensi di colpa sulla quantità e qualità (Benjamin però scriveva che la “quantità è qualità” quindi don’t worry).
Ci sono i violini, la nouvelle vague. E ci sono le polaroid.
Cinema, musica, letteratura.
Film, dischi, libri.
Citazioni come se piovesse. E poi gli anni ’60 e gli anni ’70. I telefoni rossi, le visioni stroboscopiche e le strizzate d’occhio a noi che ascoltiamo. Strizzatine d’occhio che sembrano dirci che: “Noi lo sappiamo che siamo diversi dagli altri e ci capiamo al volo, no?”
Gli spietati salgono sul treno e non ritornano mai più.
Sì, giusto.
L’arte della creazione di melodie istantanee, il culto degli accordi maggiori e delle quinte. Di ritornelli lenti, subito identificabili, subito riproducibili.
Semplici ma mai semplicistici.
Snob e antipatici.
Mistici, maledetti, spietati Baustelle. Mi avete convinto anche ‘sta volta:
…non volere mai la verità, ottenere l’aldilà,
navigare senza vento, migliorare con l’età.
C’è un amore che non muore mai, più lontano degli dei,
a saperverlo spiegare che filosofo sarei.
Però, dannazione, aggiornatelo il sito ufficiale.