Tutto quello che penso di Avatar (di James Cameron, 2009)
UNO: Ok, con la tecnologia ci siamo. Ora bisogna solo migliorare le storie.
DUE: non è vero che gli occhialetti 3D fanno venire il mal di testa.
TRE: per i maniaci dei dettagli: sì anche i sottotitoli Na’vi-italiano sono in 3D.
QUATTRO: Passaggio epocale? Assolutamente sì ma…
CINQUE: colonna sonora + canzone finale: mah.
SEI: su Pandora ci sono le meduse. Sono tante, volano e sono pure sacre.
Avviso: effettivamente questa parte è rivolta a quella ristretta minoranza di spettatori che, al termine della visione di Avatar non ha articolato in maniera più o meno dotta il seguente concetto: “Wow”.
Ho scelto per loro 2 riflessioni che ritengo rappresentative dei diversi modi con cui si può andare a vedere questo film.
Se sarete d’accordo con la prima vi godrete una magnifica esperienza di evasione come solo il cinema sa dare ritrovando un po’ di quella meraviglia provata dai primi spettatori del cinematografo dei Lumière (la paura che il treno uscisse dallo schermo), o dai primi spettatori del sonoro (“O mio dio, canta. E fischia”), o da quelli dei primi film a colori (vabbè ci siamo capiti).
È un po’ lunga ma vale la pena (almeno lo spero)
Il rilievo giocherà veramente il suo ruolo quando sarà utilizzato per trasformare la realtà solida in fantasmi fugaci, e i fantasmi fiabeschi in esseri reali.
Il regista del cinema totale potrà pietrificare la tempesta in onde di marmo verde, trasformare in qualche secondo, con una crescita impetuosa e magica, un tappeto di muschio in una foresta vergine. Nel suo universo senza legge, i palazzi spunteranno come funghi, le città si dissolveranno in fumo, il fumo diverrà granito. Animali, uomini, oggetti, il mondo intero e tutte le sue creature, e anche i sogni, tutti gli esseri incantevoli o orribili che possono nascere dall’immaginazione dei poeti, prenderanno corpo davanti allo spettatore, brulicheranno vicino a lui, attorno a lui, risplendenti, chiassosi, vivaci, solidi e già scomparsi.
Il colore diverrà materiale, apparirà in blocchi, in vortici, in veli, in volumi, in esplosioni. Tutto l’azzurro del cielo scivolerà d’un colpo nell’occhio della vergine […].
Il rilievo darà al cinema totale le sue ultime possibilità, che oltrepasseranno le immaginazioni del surrealista più folle. Il regista saggio le utilizzerà non per il piacere gratuito di delirare, ma nel quadro logico e poetico della storia che vorrà raccontare.
Più il vocabolario del cinema, vocabolario di suoni, di immagini, di colori, di volumi si arricchirà, più l’autore di film dovrà sottoporlo a una sintassi rigorosa. Non per assoggettarsi a un piatto realismo, ma per trascinare la folla, grazie alle apparenze materiali della verità, nel cuore stesso della poesia.
L’ha scritto René Barjavel, nel 1944. 66 anni fa. Dicono fosse uno scrittore di fantascienza francese.
E ora la seconda. Siete Pronti?
Alla fine di queste visioni la certezza è una sola: il computer ha preso il sopravvento sulla macchina da presa, le immagini umane cui siamo stati abituati sin dai tempi dei fratelli Lumière sono ormai superate da immagini virtuali e artificiali […].
E la Terra? E l’ uomo, come si chiedeva Huxley alla fine del suo Brave New World? Prendiamo il caso di Il nastro bianco, stupendo film del regista austriaco Michael Haneke. Nonostante la Palma d’ oro vinta all’ ultimo Festival di Cannes, in Italia l’ hanno visto pochissimi spettatori e nessun giovane. Grazie a questo tipo di cinema, e non importa se non fa bingo ai botteghini, c’ è ancora chi si occupa dell’uomo e della sua dimensione terrestre, a prescindere dalla magniloquenza degli effetti speciali.
E visto che sulla Terra alla fin fine ci dobbiamo restare, sarà bene rinsaldare l’ antico vincolo con l’umano. Anzi, converrebbe rinforzarlo ed estenderlo ai più giovani, spesso ignari che la vita, per nostra fortuna, ancora non è diventata un videogioco.
L’ha scritto Roberto Faenza, qualche giorno fa. Dicono sia un regista italiano.
La frase “il computer ha preso il sopravvento sulla macchina da presa” e la storia dei “giovani“, della “vita vera” contrapposta a quella dei “videogiochi” è quanto di più anacronistico e involontariamente spassoso abbia sentito negli ultimi tempi a proposito di tecnologia, cinema, arte, comunicazione e società.
Georges Méliès, L’homme à la tête en cahoutchouc (1901)